MANUELA ARCARI | ANTONIO PIAZZA
| [EX] ISTANTANEE DA UN MONDO ABBANDONATO
A cura di Giovanni Calori
Sala Biffi
27 Ottobre – 18 Novembre 2023
Non facciamo una foto con una macchina fotografica, portiamo a casa le immagini con la vita che abbiamo vissuto, con tutte le nostre esperienze, con tutto ciò che amiamo.
Ansel Adams
Uno dei sentimenti che più frequentemente abita l’animo umano è quello della nostalgia, spesso intrinsecamente connesso con il concetto dell’abbandono. Contrariamente a molti termini derivanti dal latino, l’etimo del verbo abbandonare ha origini dalla locuzione francese medievale “a bandon”, letteralmente «alla mercé», allo sbando. E le foto di Antonio Piazza e Manuela Arcari, immersive, realizzate con una tecnica di lunghe esposizioni e specifici interventi di postproduzione, restituiscono bene tutti questi temi, fissati silenziosamente in uno spazio/tempo che non è certamente il qui e ora, bensì l’altrove immaginifico.
Questi ex luoghi, ora sono immagini. Erano, ma contemporaneamente, sono. Questo antitetico contrapporsi tra l’istante (ovvero il tempo dello scatto fotografico) e l’abbandono (che ha un tempo lungo ed indefinito) trova compimento nell’opera affascinante di questi due autori che praticano il cosiddetto genere fotografico “urbex”, crasi dei termini anglosassoni urban exploration, in pratica, l’esplorazione di edifici abbandonati ed ancora non in rovina.
Spesso, molti di questi luoghi conservano ancora arredi e suppellettili, come se i loro abitanti dovessero rientrare da lì a poco. Avventurarsi in questi ambienti genera di per sé timore e reverenza, ma farlo con la fotocamera impone metodi di rigore e raziocinio necessari per trasfondere queste emozioni in immagini.
Da qui la necessità – sentimentale e tecnica – di esasperare ogni dettaglio, mappare ogni segno su muri, pareti, oggetti frantumati sul pavimento, alla ricerca di una luce totale, pulviscolare, che riveli dietro ad ogni ombra ciò che fu la vita pulsante di questo o quel luogo.
Feriscono, certamente, queste immagini. Non può essere diversamente, anche perché la spettacolarizzazione è qui volutamente assente, così come la ricerca della commiserazione plateale, della compiacenza densa del decadente. Tutto è dolorosamente autentico e ne restiamo toccati.
C’è, innegabile, il senso del mistero, ma non siamo davanti all’Isola dei Morti di Arnold Böcklin, e non troviamo neppure il gusto della rovina alla Piranesi o alla Poussin. E se i riferimenti all’estetica della visione non possono che essere questi, appartenenti ormai all’immaginario collettivo giunto fino a noi, ciò che affascina e nutre sia lo spettatore che gli autori è, una volta ancora, la bellezza. Una bellezza evidentemente senza cura, che prefigura la fine e la rovina irreversibile ma che, raccolta dai fotografi sulla soglia dall’ineluttabile, riesce a sconfiggere il tempo e le ombre del passato.
Queste foto non hanno didascalie: come potrebbero averle? Con quale discernimento potremmo chiamare volgarmente “ex scalone” o “ex camino” o “ex biblioteca” queste visioni? Esse sono solo costrette in un istante di immanenza che impone la fotocamera, ma poi trovano il respiro della trascendenza nell’immagine stampata, destinata a perpetuarne l’esistenza anche dopo quell’istante.
Come ultimo atto, gli autori, con estremo riguardo, non rivelano le località dei soggetti e dei luoghi ritratti: il rischio che un’azione compulsiva vandalistica raggiunga anche queste isole di silenzio e memoria, per fortuna viene così eluso. In fondo, esse appartengono a tutti noi e solo una pratica altrettanto silenziosa come la fotografia può aiutarci a salvarle dal tempo, dall’oblio e dall’incuria degli uomini, quale patrimonio nascosto che ancora qualcuno, come Antonio e Manuela, sa custodire.